Il recentissimo volume di Stefano Pronti, “La resistenza in Val Nure”, nella parte iconografica presenta un originalissimo documento che era stato ritrovato anni fa nella parrocchia di Veano.
Si tratta di un foglio dattiloscritto che riporta i nomi di una parte dei prigionieri alleati che si trovavano nel campo di concentramento per ufficiali a villa Alberoni di Veano nel 1943.
Se il volume di Pronti (edito da Fabrizio Filios) presenta elementi di interesse legato alla Resistenza in val Nure, per la rigorosa ricostruzione degli episodi e dei personaggi che ne furono rappresentativi, il documento pubblicato a pag. 165 contiene alcuni elementi di curiosità per chi segue la storia militare oltre che locale.
Tra gli ospiti del campo di Veano tecnicamente definito “Campo n.29” figurano, infatti, alcune figure che hanno lasciato tracce nella storia militare dell’impero britannico.
Il più noto anche ad un pubblico più vasto è sicuramente il colonnello Desmond Young, al quale si deve la prima biografia sul fronte alleato del feldmaresciallo tedesco Erwin Rommel. Se molta parte del mito di Rommel tra gli alleati lo si deve al comandante dell’Ottava Armata Britannica Bernard Law Montgomery, che aveva tutto l’interesse ad esaltarne la figura per aumentare i propri meriti di vincitore dell’Afrika Korps, il soprannome di “Volpe del deserto” con cui viene ricordato Rommel è stato reso universale proprio dal libro di Young, oltre che da un film nel quale ebbe una parte lo stesso Young.
Altri tre ufficiali i cui nomi compaiono sul documento hanno avuto un rilievo storico, si tratta dell’ammiraglio Walter Cowan, dei brigadieri (generali comandanti di brigata) Arthur Willison, inglese, e George Herbert Clifton, neozelandese.
Quattro storie facilmente ricostruibili, quanto meno nella parte militare.
Desmond Young, è comunque il più “piacentino” dei quattro. Il libro che lo ha lanciato nella notorietà nelle prime pagine racconta proprio la detenzione a Veano nell’estate del 1943 e in particolare l’8 settembre. Perfettamente riconoscibile è la descrizione della risalita verso Rivergaro di una colonna di carri tedeschi che andavano ad occupare il campo sapendo della fuga dei soldati italiani dopo l’armistizio. E Young racconta poi come fosse stato aiutato dai fratelli Alberici per darsi alla fuga verso la Svizzera. Il nipote degli Alberici, che ho poi perso di vista, mi raccontò oltre quarant’anni fa come Young avesse non solo citato gli zii nel libro, ma come avesse preso con loro contatto nel dopoguerra.
Per quel che riguarda il film Rommel La volpe del deserto, tratto dalla biografia del feldmaresciallo compilata da Young, lo scrittore (numerosi altri libri scrisse sulla guerra e di storia militare) collaborò alla sceneggiatura avendo anche una piccola parte in cui interpreta se stesso.
Ecco quel che riferisce il tenente colonnello Young delle sue esperienze piacentine:
“Anche tra noi inglesi correvano storie poco lusinghiere sul conto degl’italiani. Sentivamo una naturale amarezza per la “pugnalata alla schiena” ricevuta dai nostri alleati della prima guerra e non eravamo molto propensi a fare distinzioni fra il popolo italiano e il regime a cui era sottoposto.
Sul campo di battaglia consideravamo gl’italiani come i “parenti poveri” e gli scudieri dei tedeschi. Ma gli ufficiali delle divisioni indiane ricordavano che gl’italiani si erano battuti da valorosi a Cheren. Più tardi, le molte migliaia di noi che vissero alla macchia in Italia e ai quali i contadini diedero ospitalità, viveri e aiuti a rischio della vita, si fecero un’opinione ben diversa del coraggio dei singoli italiani e delle loro donne, e presentirono che in un giorno non lontano si sarebbe ristabilita la tradizione dell’amicizia tra i nostri due paesi. Io, per esempio, non dimenticherò mai Federico e Antonio Alberici, nella cui casa, a un miglio dal campo di prigionia, vissi felice per diverse settimane, quasi sempre nascosto fra le botti della cantina, mentre i tedeschi passavano davanti alla porta e Farinacci lanciava ogni sera dalla radio minacce di morte contro gl’italiani che avessero osato darci aiuto. Né dimenticherò la magica estate di Tremezzo, la prima trascorsa in Europa dall’inizio della guerra, e tutti gli amici che vi trovammo. Può darsi che gl’italiani non siano una nazione militare, ma hanno intelligenza vivace, spirito lieto e buon cuore”.
Ci racconta poi l’8 settembre visto da Veano: “… la mattina del 9 settembre, io potei assistere al passaggio dei suoi (di Rommel, ndr) Tiger che muovendo sulla strada di Rivergaro andavano ad occupare Piacenza.
La sera prima, quando la notizia dell’armistizio era giunta nel nostro campo di prigionia, mi ero affrettato a comprare dal guardiano un vecchio vestito di alpaga e un cappellone di paglia. Di buon mattino ero uscito in ricognizione, pienamente convinto di poter essere scambiato per un contadino italiano. Appoggiato al muretto di cinta di un orto, mi godevo il sole e gustavo per la prima volta dopo sedici mesi il sapore della libertà. La vista dei carri armati tedeschi in quel tranquillo angolo di campagna mi riuscì tutt’altro che gradita, e così pure la successiva apparizione di due militi delle SS armati di moschetti automatici. Me la diedi a gambe attraverso i vigneti e poi, correndo per i campi, rientrai a fare rapporto ai miei compagni di prigionia.
Più tardi potei constatare che tutti quelli che m’incontravano, ad eccezione delle SS, per fortuna, mi riconoscevano subito per quello che ero e si domandavano perché me ne andassi in giro coi panni di Alfredo.
Pur essendo rinchiusi in un campo di prigionia, noi avevamo saputo ciò che il nostro Intelligence Service evidentemente ignorava, e cioè che i tedeschi erano pronti a reagire energicamente ad un’eventuale capitolazione italiana. Uno dei nostri indulgenti guardiani aveva riferito, almeno una quindicina di giorni prima, che divisioni tedesche stavano affluendo dal Brennero. Ma non avevamo immaginato che la reazione potesse essere così rapida anche nella nostra zona. Alcuni di noi speravano addirittura di poter prendere il treno da Piacenza nel pomeriggio del 9 settembre,  per poi dirigersi verso Roma e il sud”.
Ad alcuni riuscì, altri come il capitano Archibald MacKenzie, “il Capitano Mack”, rimasero alla macchia passando con i partigiani, e vendendo, spesso uccisi insieme a loro. Il Capitano Mack lo fu il 6 ottobre 1944 dalle parti di Bettola, divenendo una delle figure ricordate nella storia della Resistenza piacentina.
Tra i prigionieri britannici a Veano non erano personaggi di secondo piano né l’ammiraglio Cowan, né i due brigadieri Arthur Willison, inglese, e George Herbert Clifton, neozelandese. Non a caso le biografie sono ampiamente riscontrabili in rete.
Di Walter Cowan, figlio di un ufficiale del Royal Welch Fusiliers, sappiamo dal web che era nato l’11 giugno 1871 a Crickhowell nel Brecknockshire (morto il 14 febbraio 1956 a 84 anni), aveva servito nella Royal Navy, ma anche nei commandos. Entrato in marina a 13 anni nel 1884 è rimasto in servizio fino al 1931, arrivando al grado di ammiraglio e dopo dieci anni è rientrato in servizio. Ha comandato numerose navi (HMS Falcon, HMS Skirmisher, HMS Sapphire, HMS Gloucester, HMS New Zealand, HMS Princess Royal, poi il la 1° squadra di incrociatori leggeri, una squadra di navi da battaglia a difesa delle coste scozzesi. Ha partecipato, oltre alla guerra boera, alla prima guerra mondiale, alla guerra civile russa (le forze navali inglesi appoggiavano in mare le armate bianche antisovietiche). Nella carriera ha meritato l’Ordine del bagno, la Distinguished Service Order & Bar ed è diventato membro del Royal Victorian Order, oltre all’immancabile titolo di baronetto. Nella seconda guerra mondiale, rientrò in servizio come volontario lavorando all’addestramento dei commandos. Trasferito in Nord Africa combatté a terra a Mechili e poi a Bir Hakeim, dove fu catturato il 27 maggio 1942, a quanto pare affrontando armato di sola pistola un blindato italiano. Nel 1943, in un insolito scambio di prigionieri con marinai italiani in Arabia Saudita, venne liberato rimanendo quindi in servizio fino al 1945, quando fu congedato. Si tratta quindi di un ben strano esemplare di soldato, tutt’altro che convenzionale, impensabile nella logica militare italiana che un ammiraglio finisca per combattere in mezzo al deserto, oltretutto accanto agli uomini della Legione Straniera e della 1° brigata della Francia libera guidata da Marie-Pierre Koenig, destinato a guidare le forze golliste sbarcate in Normandia e poi governatore della Parigi appena liberata nel 1944 (oltre che più volte ministro della Difesa, nella Quarta Repubblica).
Per quel che riguarda il brigadiere Arthur Willison le notizie sono più scarne, abbondando invece quelle sul figlio David (1919-2009), che ha passato in servizio la bellezza di 40 anni. Appena venticinquenne David sbarcò sulla spiaggia normanna Sword di fronte a Ouistreham, alla guida di una compagnia del Royal Engineers. Esperto pontiere rimase nella specialità fino al 1963, per poi entrare in una serie di ruoli dell’intelligence militare (MI4) fino al ritiro dall’esercito nel 1975, diventando però direttore generale del British Intelligence (il capo di tutti gli 007 di Sua Maestà, per intenderci) fino al 1978. Dalla biografia di David possiamo dedurre informazioni anche su Arthur: il giovane Willison era nato nel 1919 in Egitto dove il padre prestava servizio. E sempre in Egitto infatti Willison senior venne catturato per essere avviato alla prigionia a Veano.

Un altro bel personaggio, tra i prigionieri di Veano è stato di sicuro il brigadiere neozelandese George Herber Clifton. Nato nel 1898 a Greenmeadows, Napier, New Zealand era militare di carriera e anche lui proveniva dai ruoli del Genio. Aveva prestato servizio in India nei primi anni da militare, nella seconda guerra mondiale aveva partecipato alla campagna di Grecia prima di rientrare in Nord Africa; tra decorazioni e citazioni era uno che sapeva distinguersi. Era comandante della 6 brigata Neozelandese quando fu catturato nei pressi di El Alamein nel settembre 1942 venne poi portato a Veano. E vale la pena riportare quel che di lui racconta Young, suo compagno di prigionia: “Il brigadiere Clifton, soprannominato il kiwi volante, era nato con l’istinto dell’evasione. Appena ci ebbe raggiunti nel nostro campo P.G. 29, studiò subito un progetto arditissimo che lo portò ad un pelo dal successo e dalla morte. Si calò di notte da una finestra del secondo piano e si accovacciò in una piccola zona di ombra lungo il muro; questo si trovava proprio lungo il giro che la sentinella percorreva continuamente. Clifton tenne il viso schiacciato contro il muro fino a quando la sentinella si fu allontanata. Poi attraversò il cortile strisciando sul ventre e passò sotto un reticolato. Percorrendo di buon passo la campagna, giunse fino alla più vicina stazione ferroviaria, Ponte d’Oglio (sic! Noi sappiamo che è Ponte dell’Olio e la stazione quella della littorina Sift, ndr), e prese il primo treno per Milano. Dalla stazione centrale un tram lo condusse alla stazione Nord, dove prese il treno un’altra volta per arrivare a Como qualche minuto prima che la sua assenza venisse notata all’appello del mattino. A Como commise l’errore fatale. Pensò di seguire la strada per Villa d’Este, come più tardi feci anch’io e di prender poi la via delle montagne per passare in Svizzera. Alla stazione, per guadagnar tempo, noleggiò una carrozza. Giunto il momento di pagare, sorse una discussione sulla somma dovuta al vetturino.
Due carabinieri, che già avevano adocchiato Clifton, si avvicinarono. Quella sera egli ritornò in mezzo a noi.
Dopo il suo trasferimento al campo P.G. 5, (a Gavi, ndr) che era il campo di punizioni per i recidivi, apprendemmo che, durante un altro tentativo di fuga, Clifton era riuscito a raggiungere il tetto del dormitorio, dove però si era attirato una tempesta di fuoco da tutte le sentinelle. In viaggio per la Germania, mentre era seduto in mezzo a due guardie in un vagone ferroviario, ebbe la destrezza di sottrarsi alla loro custodia e di gettarsi dal finestrino mentre il treno era in corsa. Le guardie gli spararono addosso, ferendolo gravemente ad una coscia, e Clifton passò molti
mesi in un ospedale, dove fu premurosamente curato da un medico tedesco il quale si tiene ancora in corrispondenza con lui. Il 22 marzo 1945 fuggì un’altra volta da un campo della Slesia (Oflag XII B, ndr) e il 15 aprile, attraversato il Pacifico con un aeroplano dell’aviazione americana, giunse a casa sua, ad Auckland nella Nuova Zelanda”.
Quando era stato catturato ad El Alamein, Clifton era stato interrogato dallo stesso Erwin Rommel che ne era stato impressionato tanto da averne parlato anche in famiglia durante le brevi licenze trascorse a casa tra il 1942 e il 1944.
E il ricordo che Rommel – non tenero nei confronti degli avversari (anche se era stato soprattutto critico nei confronti degli italiani, affrontati da nemici nel 1917 e strapazzati anche per costruire il proprio mito di ufficiale brillante, coraggioso e dalle tecniche moderne basate sul movimento) – lasciò alla moglie deve essere stato minuzioso e particolarmente efficace. Infatti Young racconta che, quando incontrò la vedova, mentre si dedicava ai lavori preparatori della biografia del feldmaresciallo, si stupì nel vedersi chiedere notizie di quell’irrequieto e tenace brigadiere neozelandese. E Frau Rommel non solo ricordava la vicenda africana, ma persino il nome di Clifton, che doveva esser stato trattato con grande rispetto in casa della Volpe del deserto.
Dalle pagine di Stefano Pronti, quindi, oltre alla minuziosa ricostruzione di episodi e protagonisti piacentini della Resistenza, emerge anche un documento interessantissimo oltre che inedito che raccorda la storia tutta piacentina del campo 29 di Veano a pagine di storia militare che arrivano addirittura agli antipodi.

di Ippolito Negri (riproduzione riservata)